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Empatia - Relazione - Mediazione Interculturale - Photo Annie-Spratt-gq5PECP8pHE-Unsplash

Gestione dei conflitti. I ruoli dell’empatia e del riconoscere l’Altro

La visione della psicologia umanistica, nel suo insistere sull’importanza delle relazioni, è stata confermata negli ultimi anni da innumerevoli ricerche. Vi insistiamo, nell’ambito di questi articoli sulla gestione dei conflitti.

Anzitutto gli sviluppi della psicoanalisi interpersonale e gli studi sull’attaccamento tendono a dissolvere la visione freudiana del solipsismo infantile.

Le ricerche sui ‘neuroni specchio’ (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006) hanno dimostrato profonde corrispondenze fra gli individui, che costituiscono la base biologica dell’empatia.

In uno dei più recenti libri, “Unicamente umano” (2014), lo psicologo Michael Tomasello si occupa dello sviluppo del pensiero, della capacità simbolica che costituisce la grande differenza fra noi umani e le grandi scimmie antropomorfe nostre progenitrici.

Queste ultime: “pur essendo esseri sociali, conducevano una vita fondamentalmente individualistica e competitiva, e il loro pensiero serviva a raggiungere questo o quello scopo individuale” (pag.15).

In un lavoro precedente, “Altruisti nati”, Tomasello (2010) descrive come soltanto nella nostra specie si sia sviluppata l’intenzionalità collettiva, cioè la “capacità di creare con gli altri intenzioni e impegni congiunti in un’ottica di sforzo cooperativo” (pag. 14), il quale a sua volta permette di creare un terreno sociale e culturale comune. “Nei bambini sono presenti fin dalla nascita particolari adattamenti alla collaborazione, alla comunicazione con gli altri e all’apprendimento” (pag. 17).

Tuttavia, queste potenzialità vanno sviluppate con l’effettivo esercizio nelle interazioni sociali.

Da ciò “risultano una cognizione e un pensiero di tipo cooperativo frutto non tanto dello sviluppo di nuove capacità quanto della cooperativizzazione e della collettivizzazione delle capacità comuni a tutte le grandi antropomorfe” (ibid.). È indubitabile, quindi, che l’umanità non esisterebbe senza condivisione.

Atteggiamenti di altruismo

Sempre Tomasello ha dimostrato che esistono atteggiamenti altruistici precocissimi.

Vediamo questa osservazione (2010, pag. 29): “Nel corso di una indagine sperimentale, bambini di dodici mesi, in fase prelinguistica, osservano un adulto compiere una tipica operazione da grandi, come agganciare dei fogli con una pinzatrice. Mentre svolgeva il suo compito, l’adulto maneggiava anche un altro oggetto. Dopodiché, usciva dalla stanza e a quel punto entrava un altro adulto che trasferiva i due oggetti su due ripiani. Il primo soggetto faceva poi ritorno nella stanza con alcuni fogli in mano, pronto a rimettersi all’opera, ma sul tavolo la pinzatrice non c’era più: iniziava a guardarsi intorno con aria interrogativa, ma senza dire una parola”.

Sorprendentemente, “i piccoli si rendevano conto del problema ed erano motivati ad aiutare l’adulto: la maggior parte dei bambini esaminati iniziava a segnalare la localizzazione della pinzatrice scomparsa. Erano molto meno propensi ad indicare il secondo oggetto, nonostante fosse stato maneggiato in ugual misura. I bambini non volevano la pinzatrice per se stessi. Una volta che l’adulto ne era tornato in possesso non adottavano il tipico comportamento di richiesta (piagnucolare, allungare le mani verso l’oggetto e così via). Appena la pinzatrice era in mano sua, smettevano di indicare, ritenendosi soddisfatti”.

E ancora: “I bambini si dimostrano collaborativi e propensi all’aiuto in molte situazioni, anche se non in tutte, ovviamente. E non si tratta di un comportamento appreso dagli adulti, ma qualcosa di assolutamente spontaneo”.

Infine: “La propensione all’aiuto osservabile nei bambini molto piccoli è mediata dalla partecipazione empatica. Bambini tra i diciotto e i ventiquattro mesi osservavano un adulto afferrare il disegno che un altro aveva appena fatto e strapparlo intenzionalmente. Appena questo accadeva, i bambini guardavano la vittima (che non lasciava trapelare alcuna emozione) con un’espressione che poteva essere senza dubbio definita partecipe” (pag. 27).

Ovviamente a quell’età non si è ancora in grado di comprendere appieno le situazioni, per cui compare quella che si può definire, con un ossimoro, ‘empatia egocentrica’ (Bonino et al., 1998).

Eccone un esempio: una bambina vede la dada della scuola materna che nella fretta inciampa, cade e si lussa una spalla.

Per consolarla comincia ad accarezzarle la parte dolente, e questa forse non è la cosa più opportuna da fare… L’intenzione è di tenerezza e aiuto, ma commensurata su ciò che la bambina stessa riceve quando si sbuccia un ginocchio. Infatti è ancora incapace di decentrarsi dal proprio punto di vista.

Egocentrismo e ‘teoria della mente’

Il classico esperimento di Perner, Frith, Leslie e Leekam (1989) illustra la differenza fra i bambini autistici e quelli non autistici nel comprendere il punto di vista altrui.

L’osservatore adulto prende un tubetto di Smarties, lo svuota davanti al bambino e ci infila una matita. Poi gli domanda: “Se ora facciamo entrare nella stanza il tuo amichetto che aspetta fuori, lui cosa penserà?”. I bambini autistici rispondono “una matita”; gli altri, dopo una certa età, “gli Smarties”.

Sono quindi capaci di decentrarsi da se stessi e di porsi in un’ottica diversa, di ‘perspective taking’, hanno una buona ‘teoria della mente’.

Con questo termine intendiamo la capacità di figurarsi gli altri per un verso simili a noi in quanto provvisti di emozioni, pensieri, desideri ma anche differenti nella loro individualità.

La carenza in tal senso, l’immaturità egocentrica, porta a non concepire l’alterità della persona. Nel caso si coniughi con un atteggiamento altruista, l’immaturità egocentrica dà luogo all’empatia maldestra della bambina sopra descritta.

Se invece si connette al narcisismo dà luogo, come minimo, alla mancanza di empatia. L’individuo tenderà a prevaricare, a volte senza neppure accorgersene.

Inoltre, privo di un rispettabile interlocutore visto il senso di superiorità da cui è afflitto, riterrà che il proprio pensiero coincida precisamente con il vero e il giusto, rivelandosi presuntuoso e intollerante.

Una signora è in spiaggia con la figlia. Riceve una telefonata sul cellulare e risponde seccamente. Poi dice, irritata: “È quello stupido dell’idraulico. Mi telefona per venire a pulire la caldaia di casa mentre sono in vacanza”.

“Ma lui lo sapeva?”, domanda la ragazza. L’interessata tace, resta interdetta: non aveva considerato che non tutti sanno quello che sa lei.

Narcisismo

Alla fine dell’800 comparve nella psichiatria tedesca la descrizione di un caso di autoerotismo patologico, per cui venne coniato il termine ‘narcisismo’, che riprendeva il mito greco del fanciullo innamorato di se stesso in vanitosa autocontemplazione, e che venne adottato da Freud in un celebre saggio (1914).

Possiamo definirlo come il fattore psicologico collegato alla soddisfazione dei bisogni di considerazione e stima, che sostiene l’identità e dà origine ad emozioni quali la fierezza, l’amor proprio, la dignità, che possono essere feriti dal disprezzo altrui o mortificati per la vergogna.

Entro certi limiti, dunque, esso svolge una funzione indispensabile e positiva.

Non altrettanto se diviene smisurato orgoglio, eccessiva e compiaciuta attenzione per se stessi, ricerca spasmodica del successo e dell’ammirazione.

Già nel 1979, “La cultura del narcisismo” di Cristopher Lasch, aveva messo in luce questi aspetti della società contemporanea, che si sono ulteriormente rinforzati con l’avvento di internet e dei media collegati.

Steve Loughnan e collaboratori (2011) hanno studiato il cosiddetto ‘bias di autoesaltazione’, la tendenza a credersi superiori. E hanno dimostrato che esso è direttamente proporzionale alla disuguaglianza sociale, che alimenta e da cui viene alimentato in un circolo vizioso.

Questo meccanismo comporta anche che la presunta superiorità, di chi raggiunge il potere, sia indirettamente proporzionale alla capacità di empatia (Fiske, 2011), che si riverbera sull’intera società.

Richard Wilkinson e Kate Pickett (2019), hanno descritto tali pericolosi fenomeni nel loro ultimo libro “L’equilibrio dell’anima” (2019). 

Nel 2020 numerosi psichiatri americani hanno contribuito al docufilm “Unfit” (“Inadatto”) dedicato alla psicopatologia del presidente americano Donald Trump.

Lo psicoanalista Otto Kernberg ha coniato il termine ‘narcisismo maligno’ (‘malignant narcissism’) per cui l’individuo si sente superiore, onnipotente e disprezza gli altri, arrivando ad infliggere loro, senza remore, abusi e violenze.

Il concetto di ‘narcisista perverso’, introdotto dallo psicoanalista francese Paul-Claude Racamier, è stato poi divulgato e approfondito da Marie-France Hirigoyen, che ha definito ‘molestie morali’ (2000) quelle subite, di solito dalla partner, nei rapporti di coppia.

Il riconoscimento

Secondo il nostro ragionamento, gli esseri umani avrebbero tutte le risorse necessarie per impostare in modo ottimale le relazioni. Purtroppo però hanno anche quelle esattamente opposte (Arendt, 1964; Baron-Cohen, 2012).

Quali di questi aspetti ‘naturali’ verrà sviluppato, e in che misura, viene definito non solo da caratteristiche individuali ma anche e soprattutto dalla nurture’: rapporti familiari, società, cultura, educazione.

Per quest’ultimo aspetto è cruciale anzitutto che venga rispettato l’equilibrio fra bisogni, motivazioni e relativi limiti. Ciò facilita lo sviluppo di un adulto sano, psicologicamente libero e capace di amare in modo maturo, di relazionarsi agli altri responsabilmente e di crescere figli a loro volta psicologicamente sani.

Un filo rosso collega le relazioni interpersonali e quelle fra gruppi di ogni genere e dimensione: il riconoscimento.

Ciascuno dal suo punto di vista, tutti coloro che si ispirano alla psicologia umanistica insistono sull’unicità del soggetto, sulla accettazione (positiva incondizionata, per quanto riguarda Rogers) della alterità, sul valore e il piacere della reciproca conoscenza.

In un dialogo radiofonico con Martin Buber, nel 1957, Rogers affermava che lo sfondo del suo agire non era tanto quello dell’aiuto, ma del: “Adesso voglio capirti […] Chi c’è al di sotto delle maschere che indossi nella vita di tutti i giorni? Chi sei?” (Kirschenbaum, Henderson, 1989, pag.33).

In tempi recenti, l’importanza del riconoscimento è stata riproposta in ambito socioantropologico da Habermas e Taylor (2010) e, di nuovo, da Michael Tomasello (2014, pag. 71), secondo cui: “Ciò che nella nostra storia emerge per la prima volta con i primi Homo è un’intenzionalità del ‹noi› nella quale due individui si relazionano l’uno agli stati intenzionali dell’altro sia congiuntamente che ricorsivamente. Questa nuova forma di interazione è in seconda persona: un’interazione fra un ‹io› e un ‹tu›”.

Dopodiché egli cita l’ipotesi di Darwall (2006), secondo cui è essenziale il ‘riconoscimento reciproco’, con cui ciascun partner accorda all’altro, e si aspetta dall’altro, “considerazione e rispetto su una base di uguaglianza” (ibid.).

Fondamentale, quindi, l’avere relazioni fondate sull’empatia e sul riconoscimento dell’altro. Anche nell’ottica della gestione dei conflitti.

Valeria Vaccari
(6 – continua)

(Foto di copertina di Annie Spratt – Unsplash)