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Conflitti - Gestione dei Conflitti - Photo Sushil-Nash-DTe5VE76gIY-Unsplash

Gestione dei conflitti. Come riconoscere il conflitto. Parte 1^

La sintonia con l’Altro è un elemento primario, indispensabile allo sviluppo della natura umana. E rientra, come tema, nella gestione dei conflitti che trattiamo in questa serie di articoli.

Purtroppo tale tendenza è soltanto parziale e naufraga in quelle che possiamo in generale definire relazioni avversive, caratterizzate da inimicizia e ostilità.

Sebbene i contorni possano essere sfumati, le relazioni avversive possiamo divederle in due grandi tipologie:

  • la prima segue lo schema classico del conflitto;
  • la seconda, recentemente teorizzata dal filosofo francese Grégoire Chamaiou (2010), è quella della caccia

I conflitti

Il termine ‘conflitto’ deriva dal latino conflictus, urto, che rimanda a cum e al verbo fligere, percuotere, e rende bene l’idea del contrapporsi anche fisico.

Riprendendo vari contributi (Arielli, Scotto, 2003; Portera, Dusi, 2005; Coleman, Deutsch, Marcus, 2014), parliamo di una interazione antagonistica fra individui o gruppi all’interno di un determinato contesto.

In questa definizione sono comprese situazioni molto diverse fra loro.

Anzitutto non sempre il conflitto è simmetrico e ciò accade quando, almeno inizialmente, soltanto una delle due parti aggredisce l’altra che alla fine si difende. 

Il conflitto può essere aperto e manifesto o latente, ‘covare sotto la cenere’ senza che vi sia un passaggio all’atto.

Si distinguono inoltre tre livelli di conflitto:

  • micro, fra individui, all’interno delle famiglie, fra piccoli gruppi;
  • meso, fra gruppi più grandi come organizzazioni, aziende, partiti, clan;
  • macro, fra gruppi etnici, classi sociali, nazioni

Secondo la prospettiva fenomenologica, nell’instaurarsi di un conflitto più che la oggettività degli eventi conta il vissuto soggettivo delle parti in causa.

È quindi importante distinguere fra una percezione sana e corretta della situazione e una ‘proiettiva’, paranoica, basata su pregiudizi, che tanta parte ha nelle situazioni conflittuali.

Fatta questa distinzione, passiamo ad analizzare la natura dei conflitti e i fenomeni che li caratterizzano.

La trattazione non può certo essere completa, ma cercheremo di delineare un percorso che individui e connetta gli elementi essenziali, iniziando dalla base biologica.

L’aggressività

Di per sé il termine ‘aggressività’, dal latino ad-gredior, ‘vado verso’, non ha un’accezione negativa (Attili et al., 1996), anzi designa una funzione innata di fondamentale importanza.

Secondo il modello dello psicoanalista Joseph Lichtenberg (1995), l’aggressività fa parte del sistema avversivo, ‘fight or flight’, combatti o fuggi, prova rabbia o paura.

Costituisce la reazione primitiva, immediata, in caso appunto di minaccia o conflitto, che assicura la sopravvivenza.

La rabbia, ad esempio, è un’emozione primaria, presente anche nei bambini molto piccoli e negli animali, direttamente connessa all’aggressività.

Il suo rilievo si evince anche dall’abbondanza di sinonimi, di termini che indicano le diverse sfumature e di emozioni complesse che la implicano: ira, collera, furore, stizza, esasperazione, irritazione, sdegno, fino a risentimento, rancore, astio, odio.

La rabbia di per sé ha notoriamente un carattere esplosivo e irrazionale: si presenta come un accesso, uno sfogo, che ha una durata limitata ma di grande impatto.

L’attivazione fisiologica è massima con tachicardia e aumento della pressione arteriosa, rossore o pallore al volto, contrazione muscolare, sudorazione, mimica e postura caratteristiche.

Il tono della voce è alterato, il comportamento e l’eloquio sono veementi o decisamente violenti.

L’episodio è tanto più eclatante quanto minore è la capacità di regolazione dell’emozione; e a volte assume caratteristiche patologiche.

La rabbia ha grande rilevanza nei rapporti interpersonali e sociali.

Nella sua funzione di sfogo, tende a scaricarsi su qualcosa: oggetti, persone o anche sull’individuo stesso che la prova; e che mette in atto comportamenti autolesivi.

Una caratteristica importante è la possibilità di spostamento: se sono arrabbiata con A. e non posso farci nulla poi me la prendo con Z.

Dal punto di vista neurobiologico, nelle manifestazioni di rabbia sono coinvolti l’amigdala, l’ipotalamo e la corteccia prefrontale. Quest’ultima ha la funzione di modulare l’impulso emotivo.

Una giusta dose di aggressività fa parte della personalità sana: viverla e manifestarla, entro i dovuti limiti, è importante: una bella litigata risulta a volte liberatoria e utile a rinsaldare il rapporto.

Una forma civile e gradevole è l’assertività, cioè la capacità di soddisfare le proprie esigenze senza nuocere o prevaricare quelle altrui; ma piuttosto usando l’arma della comunicazione efficace e della persuasione.

Un’altra variante del tutto funzionale è lo spirito agonistico, se adeguatamente educato.

Quando è adeguatamente modulata, quindi, l’aggressività viene messa al servizio della tendenza attualizzante, della motivazione all’autorealizzazione.

Secondo Erich Fromm (1973) esistono due tipi di aggressività:

  • quella ‘difensiva’, ‘benigna’ che è una funzione di sopravvivenza e/o lo strumento per arrivare ad un obiettivo, comune a tutti gli animali;
  • quella ‘maligna’, fine a se stessa, che mira a distruggere, umiliare, negare, di esclusiva pertinenza, ahimè, della specie umana

Il primo tipo di aggressività – quella difensiva, benigna – tende a placarsi una volta raggiunto lo scopo, l’altra (maligna e fine a se stessa) no.

I bambini in età prescolare, ad esempio, diventano aggressivi quando vogliono ottenere ciò che desiderano; quelli psicologicamente sani, però, si placano nel vedere che la ‘vittima’ piange, mentre gli altri persistono ed incrementano la violenza.

L’aggressività distruttiva, la rabbia illimitata priva di regolazione emotiva, può costituire un vero e proprio stile che innesca una spirale di violenza.

Nei casi più gravi, parliamo di ‘disturbi di personalità’. Si tratta di disfunzionamenti psicologici, la cui caratteristica sono la mancanza di empatia e l’indifferenza ai principi etici, tanto che nel passato venivano definiti ‘follia morale’.

Ricordiamo anzitutto il narcisismo maligno e perverso.

Connotati da qualche forma di violenza, sono il disturbo antisociale e quello di controllo degli impulsi, ma anche il borderline e il passivo-aggressivo. 

Sebbene l’aggressività sia un fattore innato, le emozioni e i comportamenti che la esprimono risentono moltissimo di variabili sociali e culturali.

Esistono gruppi in cui la rabbia e la violenza sono quasi inesistenti o gravemente sanzionate, altri in cui sono approvate e incentivate.

Nel meccanismo di attacco o fuga, la paura è l’emozione simmetrica alla rabbia.

Se ci troviamo davanti qualcuno infuriato e violento, ovviamente ci spaventiamo. Anche la paura è un’emozione primaria, innata.

Nel bambino è caratteristico il ‘pavor nocturnus’: il risveglio a metà della notte con terrore e pianto senza contenuti precisi.

Altre forme ancestrali sono la paura del buio, di alcuni animali, dell’abbandono e/o della morte dei genitori. Per questo, la paura nel bambino è strettamente connessa al bisogno di sicurezza.

Similmente alla rabbia, esistono molte varianti e sfumature del medesimo nucleo:

  • timore,
  • terrore,
  • panico,
  • spavento,
  • preoccupazione,
  • ansia (che è l’anticipazione di una minaccia o pericolo),
  • angoscia (che è un’ansia chiusa e pessimista),
  • fobia (che è un’ansia legata a qualcosa che ci spaventa senza essere davvero pericoloso)

A volte questi fenomeni emotivi sconfinano nel patologico e in un meccanismo che si autoalimenta, la ‘paura della paura’.

A livello fisico, l’emozione si manifesta con secchezza delle fauci (mancanza di saliva in bocca), sudorazione fredda, occhi sbarrati, a volte con sintomi gastro-intestinali legati al sistema nervoso autonomo.

Il comportamento può essere quello classico di fuga oppure di immobilità e paralisi: il freezing ha anch’esso una valenza adattiva, quella di passare inosservati all’aggressore.

Dal punto di vista neurobiologico, in questa emozione sono coinvolti l’amigdala, nonché l’ippocampo; e un piccolo nucleo del tronco cerebrale chiamato locus ceruleus.

La paura possiede risvolti sociali molteplici.

Ricordiamo anzitutto quella dell’ignoto e quindi dell’estraneo, che tanto ha a che fare con il tema delle migrazioni.

Poi, il fenomeno del ‘contagio emotivo’: in situazioni di affollamento, un evento anche banale come un rumore, un individuo che urla, può innescare una fuga generale e spesso catastrofica.

Infine, la sanzione morale che colpisce il pavido, il vile, colui che manca di coraggio.

Agli albori della civiltà, pare che le emozioni ancora non possedessero un nome.

Aver condensato il vissuto soggettivo, le manifestazioni fisiche e le tendenze all’atto in una parola (miracolo del logos) ha permesso di dire e di dirsi: “Non aver paura!”, cioè di gestire il comportamento.

Secondo il mito, furono le reciproche esortazioni che permisero ai soldati greci di non scappare, davanti alle preponderanti forze nemiche durante le guerre persiane.

Fatte queste precisazioni e richiamati alcuni concetti legati alle relazioni e ai vissuti di noi umani, nel prossimo articolo tratteremo della classificazione dei conflitti.

Valeria Vaccari
(7 – continua)