Gestione dei conflitti. Bisogni e qualità delle relazioni
Nel trattare la gestione dei conflitti, la mediazione interculturale e quindi la relazione tra le persone, è occorre fermarci ad analizzare limiti e territori entro cui ogni persona si può muivere. E con cui deve fare i conti per un armonico sviluppo.
In un riflessione sulla Psicologia umanistica che comprenda il tema del conflitti e della mediazione, è allora importante fermarsi a considerare il pensiero di Abraham Maslow e la sua scala dei bisogni.
La figura tradizionalmente legata al tema dei bisogni è quella di Abraham H. Maslow. Nato nel 1908 a Brooklyn da una famiglia di ebrei russi, era il primo di sette fratelli.
Di carattere chiuso e di intelligenza vivace, durante gli studi all’Università del Winsconsin lavorò con Harry Harlow sull’attaccamento nelle scimmie rhesus.
Dopo il matrimonio con la cugina Bertha, a lungo osteggiato dalle famiglie, si stabilì a New York e qui insegnò per diversi anni, entrando in contatto con l’ambiente degli intellettuali europei ed antinazisti fuggiti dall’Europa.
Successivamente divenne capodipartimento alla Brandeis University, dove lavorò a fianco di Kurt Goldstein, una delle figure più importanti della psicologia umanistica, autore di contributi determinanti sul principio olistico-dinamico.
Nel 1962 fu fra i fondatori della Association for Humanistic Psychology (Bühler, Allen, 1972) e successivamente della omonima rivista. Trascorse gli ultimi anni in California, dove morì nel 1970.
Bisogni e motivazioni. La piramide di Maslow
Uno dei meriti di Maslow è quello di avere fornito un inquadramento del rapporto fra l’individuo e l’ambiente e delle sue conseguenze psicologiche.
Nel noto schema dei bisogni di Maslow si distinguono vari livelli di bisogni che, nella versione più nota, sono cinque:
- 1. fisiologici;
- 2. di sicurezza e protezione;
- 3. di amore e appartenenza;
- 4. di stima e valorizzazione;
- 5. di autorealizzazione
La figura si può dividere in due grandi aree: i ‘bisogni carenziali’, che stanno alla base, e quelli di ‘autorealizzazione’ che costituiscono il vertice.
I bisogni carenziali compaiono subito dopo la nascita e comportano una potenziale mancanza: la loro insoddisfazione è patogena, mentre la soddisfazione previene lo sviluppo del disturbo o, se questo si è già instaurato, costituisce la cura.
I bisogni carenziali sono ‘buchi’, ‘vuoti’ che vanno riempiti dall’esterno, cioè da persone diverse dall’interessato.
Infatti nell’individuo che è stato accettato, amato, valorizzato, rassicurato, essi risultano funzionalmente inattivi.
Al contrario, se persistono insoddisfatti fino all’età adulta, il comportamento e le scelte dell’individuo saranno finalizzati alla loro saturazione.
I bisogni carenziali, infatti, legano ad una sorta di determinismo biologico che rende il soggetto meno libero e meno responsabile. Da qui l’importanza di aver goduto nell’infanzia di quello che oggi definiremmo un ‘attaccamento sicuro’ (Bowlby, 1989).
La scala gerarchica dei bisogni
La scala gerarchica prevede l’avvicendarsi dei livelli: quando i bisogni precedenti vengono soddisfatti, l’individuo sviluppa quelli successivi.
Per quanto riguarda l’autorealizzazione, a rigore non potremmo parlare di bisogno, perché l’ambiente non deve fornire alcunché, ma piuttosto assecondare e favorire l’estrinsecarsi delle potenzialità.
Sarebbe quindi più appropriato il termine ‘motivazione’ (dal latino ‘motus’, movimento) che rende meglio in senso dell’andare verso.
L’autorealizzazione è collegata ad una serie di concetti cui faremo brevemente cenno. Anzitutto quello di ‘agency’, ‘agentività’ (Ahearn, 2002) che designa la capacità di agire, individualmente o in gruppo. In tal modo si può, entro certi limiti, far accadere o gestire gli eventi, plasmare la realtà, acquisire potere.
Da questo possiamo far derivare il ‘senso di autoefficacia’ descritto dallo psicologo canadese Albert Bandura (1996).
Si tratta della percezione che la propria agency vada a buon fine, che i bisogni siano soddisfatti e gli obiettivi raggiunti, che si mantenga un certo potere, una capacità di gestione, una padronanza sul mondo interno ed esterno.
Il contrario, possiamo dire, è ciò che Martin Seligman (1993) ha definito ‘impotenza appresa’. La cavia da esperimento dentro la gabbia, sottoposta ad un certo numero di scariche elettriche che non può evitare, prima cerca di mettersi in salvo, poi si agita, ma alla fine, potremmo dire, si rassegna e anche quando viene liberata resta inerte. A volte qualcosa di simile accade alle persone, ai gruppi, alle società.
Mentre i bisogni carenziali riguardano l’aspetto nomotetico della personalità, cioè la dimensione comune a tutti gli esseri umani, l’autorealizzazione è qualcosa di idiografico, attinente all’unicità dell’individuo.
Ognuno di noi tende infatti, come asseriva lo psicologo Carl Rogers, ad autonomizzarsi e individuarsi sempre di più, a ‘divenire se stesso’.
La prima motivazione che compare nel bambino è indubbiamente il gioco; seguono tutte le aspirazioni che definiscono la vita, dalla sete di conoscenza alla creatività in qualche ambito, alla spinta a formare una coppia e una famiglia o invece a scegliere la vita religiosa.
La spiritualità e la trascendenza sono infatti a pieno titolo modi di realizzarsi dell’umano.
La successione gerarchica dei bisogni contrasta con le posizioni di un altro psicologo umanista, l’austriaco Victor Frankl (1946), fondatore della logoterapia.
Basandosi sulla sua esperienza di sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, egli osserva che l’autorealizzazione, nella forma del perseguimento dei propri valori morali o religiosi, può in realtà imporsi sui bisogni più ‘bassi’.
Ciò potrebbe spiegare perché esistono persone che accettano gravi limitazioni al benessere e addirittura sacrificano la vita privilegiando i valori, che sono comunque, a loro volta, legati all’identità, all’autostima e all’appartenenza.
Bisogni e limiti delle persone
Per un sano sviluppo psicologico, la soddisfazione dei bisogni carenziali da parte dei genitori deve avere un limite.
Riprendiamo un esempio proposto da Maslow: il bambino che muove i primi passi si avventura all’esplorazione della stanza, ma soltanto se può godere della rassicurante presenza della madre.
Altrimenti questo comportamento, che esprime una tendenza all’autonomia, non compare oppure va incontro ad una regressione. Ma che dire di certe madri iperprotettive che accudiscono a oltranza il beneamato pargolo?
Paradossalmente, il risultato è simile: si inibisce l’autonomia, su cui si basa la possibilità di autorealizzazione, si crea dipendenza e, cosa non meno importante, si impedisce la presa di coscienza, la simbolizzazione del bisogno stesso.
Ci accorgiamo dell’importanza di qualcosa quando questa ci manca e siamo obbligati a simbolizzarla. Come già sosteneva Freud, senza frustrazione la consapevolezza non si sviluppa.
Infine, circoscrivere le esigenze del singolo assicura i diritti di tutti nelle relazioni interpersonali; ed evita che il senso di onnipotenza infantile persista nell’adulto, che l’autoefficacia si espanda in maniera abnorme.
Come risultato di un sano sviluppo, l’individuo acquisirà una buona struttura psichica e sarà in grado di autocontenersi, riconoscendo e rispettando nel contempo i bisogni propri e altrui.
Valeria Vaccari
(5 – continua)
(Foto di copertina di Chester Wadeg – Unsplash)