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Gestione dei conflitti - Psicologia Umanistica - Car Rogers - Centro Studi Interculturali - UniVerona - Photo Alicia-Christin-Gerald-zm4CcBeBbp8-Unsplash

Gestione dei conflitti: la psicologia secondo Carl Rogers

Nell’ambito della comunicazione interculturale, della mediazione e della gestione dei conflitti, è di grande interesse il ruolo svolto dalla Psicologia Umanistica.

Proseguiamo qui l’approfondimento, iniziatosi nel precedente articolo intitolato “Gestione dei conflitti: la Psicologia Umanistica”, con il lavoro scientifico di Carl Rogers e la sua terapia centrata sul cliente.

Nato nel 1902 a Oak Park, un sobborgo di Chicago, Rogers apparteneva a una famiglia numerosa, molto unita, religiosa di stretta osservanza fondamentalista.

Nella sua formazione cruciale fu l’insegnamento di William Heard Kilpatrick, a sua volta allievo diretto del filosofo pragmatista James Dewey.

Concluso il percorso universitario, Rogers iniziò la carriera professionale nel 1928, presso il Child Study Department di Rochester, lavorando per dodici anni come counselor e terapeuta.

Qui, partendo da successi e fallimenti, maturò convinzioni assai diverse da quelle all’epoca generalmente condivise.

Nel 1940, in un congresso all’Università del Minnesota, Rogers prefigurò un indirizzo teorico-clinico interessato agli aspetti emozionali più che a quelli razionali, alla situazione attuale più che a quella passata ed infine alla relazione di aiuto come esperienza di crescita (Kirshenbaum, 1979).

Queste idee sono riportate nel primo importante lavoro “Psicoterapia di Consultazione” (1942) in cui il nuovo approccio viene definito ‘non direttivo’.

Il suo scopo, infatti, non è quello di risolvere lo specifico problema, ma di aiutare l’individuo a maturare, cosicché egli possa farvi fronte tramite le sue risorse.

Terapia e “cliente” secondo Carl Rogers

Il terapeuta non è l’esperto che definisce e interpreta il significato, ma il facilitatore di un processo la cui padronanza e direzione non devono mai sfuggire al soggetto.

Per sottolineare tale aspetto, ed anche evitare una definizione ‘in negativo’, con l’omonimo testo del 1951 fu adottata la denominazione Client-centered Therapy.

La quale non implica  alcunché di commerciale ma definisce il rapporto professionale e, insieme, la parità esistenziale fra i due protagonisti della relazione.

Il libro segna un punto di svolta nell’opera di Rogers, in quanto integra una prospettiva fenomenologica (Snygg, Combs, 1949).

Semplificando, ciò significa che la ‘realtà’ non coincide con ciò che accade, con il dato oggettivo, ma con la percezione che ne abbiamo, ed è quest’ultima che informa il comportamento.

Nel frattempo Rogers aveva iniziato una brillante carriera accademica. All’Università di Chicago, dove rimase 12 anni, fondò il Counseling Center, raccogliendo un gruppo di allievi e collaboratori che costituirono il primo nucleo del suo movimento.

Nel 1964 Rogers si trasferì a La Jolla, in California. Gli anni ’60 nella West Coast erano un crogiolo di novità e fermenti.

Rogers stesso vi contribuì, estendendo i principi della sua terapia a varie altre relazioni di aiuto: insegnamento, assistenza sanitaria e sociale, consulenza religiosa.

Fu così adottata una definizione più generale, quella di “Person-Centered Approach.

Sempre in sintonia con lo spirito di quegli anni, Rogers intensificò il lavoro e la ricerca sui ‘gruppi di incontro’.

Possiamo definirli un’esperienza di dialogo interpersonale senza obiettivi specificamente terapeutici. Ma volta a facilitare il miglioramento della comunicazione e delle relazioni.

Risoluzione di conflitti sociali, religiosi ed etnici

All’epoca si sperimentarono gruppi intensivi di lunga durata e grandi gruppi con centinaia di partecipanti, spesso finalizzati alla risoluzione di conflitti sociali, religiosi, etnici e via discorrendo.

Tale impegno si concretizzò nell’Institute for Peace, da Rogers fondato assieme all’amica e collaboratrice Gay Swenson.

Rogers muore nel 1987, quando il suo approccio è già diffuso e va sviluppandosi in tutto il mondo.

Le sue idee, spesso senza un esplicito riconoscimento, sono progressivamente acquisite nell’ambito della psicoterapia e delle relazioni di aiuto.

Terapia centrata sul cliente

La Terapia centrata sul cliente consiste essenzialmente in una serie di teorie:

  • una teoria della personalità, che delinea le strutture e i meccanismi della nostra psiche;
  • una teoria del counseling e della terapia, che analizza le condizioni per il cambiamento nella relazione di aiuto;
  • una teoria delle relazioni interpersonali, che definisce la funzionalità e la disfunzionalità dei rapporti e il loro influsso sugli individui che ne fanno parte 

Andiamo per ordine. E vediamo di esplicitare i concetti.

Teoria della personalità

Secondo il principio olistico su cui si fondano le teorie umanistiche, l’individuo è una totalità psico-fisica, una gestalt, un insieme armonico e integrato in cui ogni parte non è separabile dalle altre.

Perciò la personalità può essere considerata soltanto nel suo insieme e nel contesto in cui si trova ad operare.

Inoltre l’individuo si sviluppa in base ad un principio dinamico, chiamato ‘tendenza attualizzante’.

La vita non consiste nella mera sopravvivenza, nel mantenimento di uno status quo, ma in un continuo processo di autorealizzazione, di attuazione delle potenzialità innate.

Viene in tal modo a definirsi anche il rapporto individuo-ambiente.

Come il seme può dare origine all’albero se il terreno lo permette, cosi l’individuo può seguire il suo naturale sviluppo se trova condizioni materiali e psicologiche ‘facilitanti’.

Con il termine ‘esperienza’, Rogers riprende un concetto ampiamente usato dai pragmatisti per indicare il vissuto psichico nella sua immediatezza.

Tale vissuto è presente fin dalla nascita: le sensazioni di provenienza interna (ad esempio la fame) o esterna (ad esempio il rumore) si susseguono senza essere ancora ben distinte.

Crescendo, il bambino organizza l’esperienza nella percezione e poi la simbolizza.

Così la sensazione di fastidio allo stomaco (esperienza) viene individuata (percezione), resa cosciente e infine verbalizzata: “Ho fame”.

Pensieri e parole come simboli

I pensieri e le parole sono simboli, e i simboli sono, per definizione, qualcosa che sta per qualcos’altro.

Il termine designava, nell’antica Grecia, le due parti di una tessera di terracotta che, spezzata, può essere ricomposta avvicinandole.

La parola ‘gatto’ è dunque in un certo senso la metà del gatto in carne ed ossa, che viene usata al suo posto in modo socialmente condiviso.

Infatti la tessera spezzata e ricomposta veniva usata per stipulare accordi.

Da qui il significato di ‘patto’ che il termine greco assumeva per traslato. E che si addice bene all’intesa comune sul modo di usare e intendere ogni  parola.

La capacità di produrre e usare simboli è tipicamente umana ed è strettamente connessa alla coscienza e alla consapevolezza.

Fra le esperienze una parte rilevante è costituita dalle emozioni.

Gestione dei conflitti - Psicologia Umanistica - Car Rogers - Centro Studi Interculturali - UniVerona - Photo Alicia-Christin-Gerald-zm4CcBeBbp8-Unsplash

L’esperienza delle emozioni

Le emozioni sono processi interiori che hanno la funzione di valutare gli stimoli ambientali e, su questa base, di prepararsi all’azione (Frijda,1986).

In altre parole, senza la rabbia e la paura non ci sarebbero l’attacco o la fuga. E quindi nessuna possibilità di sopravvivenza (vedi oltre: aggressività).

Le emozioni primarie sono universali: sebbene il loro numero sia controverso, senza dubbio felicità, tristezza, rabbia, paura, disgusto, disprezzo, sorpresa, orgoglio e vergogna appartengono a tutti gli esseri umani.

La società e la cultura hanno tuttavia una grande capacità di selezionare, mescolare e plasmare, dando luogo alla varietà descritta in “Atlante delle Emozioni Umane”, di Tiffany Watt Smith (2017).

Una base emotiva hanno anche processi affini quali i sentimenti, gli affetti, l’umore e gli stati d’animo.

Nelle emozioni possiamo individuare varie componenti. La prima, la denominiamo ‘quale’, al plurale ‘qualia’.

Il termine qualia, che in latino significa ‘di una qualche natura o qualità’, viene usato nella psicologia della percezione (i qualia dei colori) e, in generale, negli studi che si occupano della coscienza fenomenica.

La collezione delle esperienze

Secondo Edelman (1993) i qualia costituiscono la collezione delle esperienze personali e soggettive, “come le cose ci sembrano in quanto esseri umani: per esempio l’essere rosso di un oggetto rosso è un quale”.

Applicato alle emozioni, questo concetto significa  che quando dico “sono arrabbiata” o “sono preoccupata” tutti afferrano di cosa sto parlando.

Lo fanno perché hanno provato o possono provare loro stessi qualcosa di analogo.

Questa comprensione intuitiva, non scomponibile, non ulteriormente descrivibile, e quindi non algoritmica, è resa possibile da quella che Husserl, nella “Quinta meditazione cartesiana”, ha definito ‘intersoggettività’ fra gli esseri umani.

Io posso capire l’altro perché c’è una base comune che ci rende simili, pur nelle differenze.

Definiamo quindi i qualia come la componente fondamentale ed imprescindibile dell’emozione.

Spesso il linguaggio ci porta a dire: “mi sento valorizzato”, “mi sento escluso”: in realtà né la valorizzazione né l’esclusione hanno un quale emotivo.

Per mettere in rilievo quest’ultimo dovremmo invece dire “sono soddisfatto perché ritengo di essere valorizzato” oppure “sono dispiaciuto perché non mi considerano”; in questo caso i termini ‘soddisfatto’ e ‘dispiaciuto’ fanno davvero riferimento a qualia.

Lo spettro delle emozioni

Esistono emozioni piacevoli e positive (la felicità), altre spiacevoli (la delusione), altre ancora neutre e distaccate (l’indifferenza).

Ciò significa, riprendendo quanto detto, che nei qualia, è insito un risvolto cognitivo imprescindibile di valutazione della situazione.

Si tratta di due facce della stessa medaglia che insieme costituiscono il ‘nucleo dell’emozione’.

A questo si aggiungono l’attivazione fisiologica (rossore, sudorazione, accelerazione del battito cardiaco, secchezza delle fauci), e il comportamento (fuga, aggressione, paralisi, mutismo e altre possibilità).

L’ultima componente è la consapevolezza, niente affatto scontata, anzi. Posso provare un’emozione, avere determinate reazioni fisiche ed anche un specifico comportamento senza esserne consapevole.

Nella medicina psicosomatica si adotta il concetto di ‘alexitimia’, letteralmente ‘non ci sono parole per le emozioni’. Queste ultime vengono ‘scaricate’ a livello corporeo senza essere ‘pensate’, rese consce.

Come abbiamo detto, l’essere umano può definirsi un animale simbolico: ha cioè la capacità, attraverso il pensiero e il linguaggio, di attribuire significati al mondo che lo circonda e a se stesso.

Questo implica:

  • cercare ordine e coerenza,
  • porsi domande,
  • collegare fra loro gli eventi,
  • fornire spiegazioni ai fenomeni

L’ottica relazionale della Psicologia Umanistica

Ogni neonato entra a far parte di un ordine simbolico, culturale, di una rete di linguaggio, significati, riti, valori, credenze e oggetti che connotano la famiglia e la società.

Quest’ordine viene in parte tramandato di generazione in generazione.

Lo psicologo umanista Prescott Lecky (1956) riporta la Bibbia, il libro di Ruth (16-17) “Perché dove tu andrai, anch’io andrò; e dove ti poserai anch’io lo farò; la tua gente sarà la mia gente e il tuo Dio il mio Dio; morirò dove tu morirai e lì sarò sepolto.

Così le esperienze individuali e gli apporti sociali plasmano la forma mentis.

Essa è formata da ‘costrutti’, secondo la terminologia dello psicologo George Kelly (1955), cioè da princìpi cognitivi (Fresa, Vaccari,1997).

Sono principi più o meno consapevoli con cui ognuno di noi interpreta e valuta il mondo interno ed esterno. E da cui deriva scelte e comportamenti.

A partire da un certo punto dello sviluppo psicologico, si costituisce un insieme di costrutti e valori che riguardano l’identità dell’individuo, il ‘concetto di sé’.

A differenza della psicoanalisi, che ha risentito a lungo della visione freudiana del bambino chiuso nel suo mondo, la psicologia umanistica si è posta fin dall’inizio in un’ottica relazionale.

Il modello di relazione secondo Rogers

Rifacendosi all’interazionismo simbolico dell’antropologo George Herbert Mead, e in particolare a “Mente, sé e società”, pubblicato nel 1934, Carl Rogers abbozza un modello di relazione.

Si tratta di un modello di relazione in cui il concetto di sé, che si forma nell’infanzia, viene profondamente influenzato dai feedback dei ‘significant social others’: non necessariamente i genitori, ma in generale figure adulte di riferimento.

Elementi del concetto di sé sarebbero, ad esempio: “Sono un tipo tranquillo”, “Sono bella e affascinante”. O viceversa “Mi sento brutta e ridicola”.

In tal caso la persona non è certo contenta. Però spesso, anche se lo specchio o chi le sta intorno manda feedback positivi, persiste in questa convinzione.

Valori, costrutti e concetto di sé

Infatti l’individuo tende a mantenere omogeneo e costante nel tempo l’insieme dei valori, dei costrutti e il concetto di sé.

Se una persona fosse in grado di adattarsi tanto velocemente quanto a volte ci si aspetta, non avrebbe personalità” scrive Lecky. Entrerebbe in confusione, magari non saprebbe più chi è.

La spiegazione è stata fornita da Leon Festinger con la teoria della ‘dissonanza cognitiva’ (1957).

Quest’ultima si crea quando un individuo ha a disposizione due nozioni contraddittorie fra loro. Ad esempio: “Sono convinta di essere un’incapace” e “Anche in questo esame ho preso 30 e lode”.

Assumerle entrambe sarebbe pericoloso per la coerenza interna: come può un’incapace prendere ottimi voti?

Di regola, quindi, si elimina una delle due, di solito la meno profonda e radicata: “Sono solo stata fortunata! Prima o poi i professori si accorgeranno che non so nulla”.

Forma mentis, esperienze e personalità

In sintesi, quindi, ognuno di noi tende a mantenere la propria ‘forma mentis’ e a cambiarla soltanto in modo coerente e progressivo.

In questo modo, viene rielaborando man mano le esperienze che vive assieme a quelle che ha vissuto in passato. E a ciò che è (stato) trasmesso dal proprio ambiente.

Vedremo nel prosieguo di questo lavoro di riflessione quanto tali meccanismi operino nella dimensione interculturale e nel verificarsi dei conflitti.

Possiamo passare, da queste riflessioni, alla teoria del counseling e della terapia, che trattiamo in un successivo articolo.

L’impegno su queste tematiche è importante per un lavoro di comunicazione interculturale, mediazione interculturale e gestione dei conflitti che nella Psicologia Umanistica trova terreno fertile dove poggiare.

Valeria Vaccari
(2 – continua)