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Comunicazione interculturale e gestione delle risorse umane

 

Immagina una band in cui ogni musicista suona seguendo spartiti diversi, in lingue differenti, interpretando il tempo secondo i ritmi della propria tradizione musicale.

Il risultato? Non un concerto coinvolgente, ma un’accozzaglia di suoni che sembrano sgangherati rumori.

Questa è la fotografia di molte imprese oggi, siano esse profit o non profit.

Abbiamo organizzazioni – enti e istituzioni inclusi – che assumono persone provenienti da tutto il mondo, ma che non hanno gli strumenti per orchestrare questa ricchezza in una concerto di produttività e innovazione.

Se sei responsabile delle risorse umane in un’impresa, un ente o un’organizzazione che impiega cittadini e cittadine stranieri, questo articolo ti riguarda in via diretta.

Parliamo di competenze interculturali e di come queste possano trasformare la gestione della diversità da sfida quotidiana a vantaggio sul piano del lavoro, della competitività e del clima organizzativo.

Lo facciamo ispirandoci ai testi di Agostino Portera, professore ordinario di Pedagogia generale e sociale, e di Marta Milani, professoressa associata di Pedagogia.

Il professor Portera è il direttore del Master universitario – online con seminari in presenza – in Intercultural Competence and Management – Mediazione interculturale, Comunicazione e Gestione dei Conflitti.

Diversità come risorsa da valorizzare

In un mondo del lavoro, segnato da globalizzazione e interdipendenza planetaria, la diversità culturale ha smesso di essere un’eccezione per diventare la norma.

E qui occorre fare chiarezza: quando parliamo di diversità culturale nelle imprese, non ci riferiamo solo a etnia, lingua o religione.

Il concetto abbraccia un orizzonte molto più ampio:

  • genere,
  • orientamento politico,
  • status sociale,
  • abilità cognitive e fisiche,
  • tendenze comportamentali e valoriali.

Team eterogenei, se ben gestiti, generano innovazione, creatività e capacità di problem-solving superiori rispetto a gruppi omogenei.

Ma – ed è un “ma” sostanziale – questa potenzialità si trasforma in valore reale solo se i professionisti delle risorse umane possiedono le competenze interculturali necessarie a facilitare l’incontro, il dialogo e la collaborazione tra persone culturalmente diverse.

Perché le competenze interculturali sono importanti

Le competenze interculturali (CI) rappresentano l’insieme di conoscenze, atteggiamenti e abilità necessarie per gestire con successo le relazioni con persone linguisticamente e culturalmente differenti.

Non si tratta di un elenco di “regole culturali” da memorizzare (“in Giappone ci si inchina, in Italia si parla con le mani”), ma di un approccio sistemico che si articola in tre dimensioni fondamentali:

1. Il Sapere (Knowledge): conoscere per comprendere

La prima dimensione riguarda la consapevolezza del sé culturale – il proprio e quello altrui. Come professionisti delle risorse umane, dobbiamo riconoscere che ognuno di noi porta in azienda un “bagaglio culturale invisibile” fatto di convinzioni, valori, modi di comunicare e di interpretare il mondo.

Considera, per esempio, la comunicazione. Gli stili narrativi, l’uso delle metafore, persino il significato attribuito al silenzio variano enormemente tra culture.

Un candidato che durante un colloquio non guarda negli occhi l’intervistatore potrebbe essere interpretato come insicuro o poco sincero nella cultura italiana. In molte culture asiatiche, invece, questo stesso comportamento indica rispetto e deferenza.

La competenza in comunicazione interculturale richiede quindi la padronanza non solo del linguaggio verbale, ma anche di quello non verbale e paraverbale, contestualizzandoli culturalmente per evitare fraintendimenti che possono compromettere processi di selezione, valutazione delle performance e gestione dei conflitti.

2. Il Saper Essere (Attitude): gli atteggiamenti che fanno la differenza

Questa è forse la dimensione più determinante e, al contempo, la più trascurata. Riguarda le attitudini personali, psicologiche e socio-culturali che permettono di facilitare relazioni efficaci in contesti multiculturali.

Pensa al tuo ruolo nell’organizzazione come a quello di un ponte.

Un ponte robusto non si costruisce solo con materiali di qualità (il sapere), ma richiede fondamenta solide che resistano alle sollecitazioni: flessibilità, sensibilità, curiosità, apertura al nuovo e al diverso, capacità di ascolto autentico, pazienza e motivazione.

Tuttavia, l’attitudine più importante è il decentramento: la capacità di relativizzare il proprio punto di vista, di uscire dalla propria “bolla culturale” per comprendere che il proprio modo di vedere il mondo non è l’unico possibile, né giocoforza il migliore.

Un manager delle risorse umane con spiccate attitudini interculturali sa che frasi come “da noi si è sempre fatto così” – o “questa è la nostra cultura aziendale” – possono essere potenti strumenti di esclusione.

Al contrario, domande del tipo “come affrontate questa situazione nella vostra esperienza?” o “quale prospettiva possiamo integrare per arricchire il nostro approccio?” aprono spazi di dialogo paritetico e costruzione di obiettivi condivisi.

3. Il Saper Fare (Skills): dalla teoria alla pratica

La terza dimensione traduce conoscenze e attitudini in azione concreta, con particolare riferimento alla mediazione interculturale e alla gestione dei conflitti.

In un ambiente di lavoro multiculturale, i conflitti sono inevitabili.

Non stiamo parlando solo di conflitti aperti, ma anche di quella tensione sotterranea che emerge quando aspettative, stili di lavoro e modalità comunicative collidono.

Gli stereotipi e i pregiudizi – spesso inconsci – sono parte dell’esperienza umana e non possono essere eliminati con un corso di formazione o una policy aziendale.

Quello che può fare la differenza è la formazione specifica per riconoscere, gestire e trasformare questi conflitti in opportunità di crescita.

La mediazione interculturale non è un intervento emergenziale da attivare quando le cose vanno male, ma una strategia di interazione continua mirata all’inclusione e al riconoscimento delle differenze.

Dall’assimilazione all’intercultura

Per decenni, l’approccio dominante alla diversità in azienda è stato quello dell’assimilazione: i nuovi arrivati dovevano adattarsi alla cultura aziendale esistente, lasciando alla porta le proprie specificità culturali.

Più di recente, il paradigma del multiculturalismo ha promosso il rispetto e la coesistenza pacifica delle differenze. Spesso lo ha fatto limitandosi a una “convivenza parallela” priva di reale interazione.

L’approccio della Pedagogia Interculturale – sottolinea Agostino Portera nei suoi scritti – rappresenta una vera rivoluzione copernicana nel management.

Superando sia l’universalismo (che ricerca valori comuni ignorando le differenze) sia il relativismo culturale (che rispetta le differenze ma non facilita l’incontro), la prospettiva interculturale aggiunge la dimensione cruciale del dialogo, del confronto e dell’interazione costruttiva.

Per i professionisti delle risorse umane questo significa:

  • Valorizzare la dinamicità culturale: le culture non sono compartimenti stagni, ma realtà fluide, in costante cambiamento. L’approccio interculturale fornisce le “lenti” per guardare alle culture nella loro evoluzione, focalizzandosi sull’individuo concreto piuttosto che su stereotipi culturali astratti.

  • Vedere l’alterità come risorsa: l’incontro con il collega culturalmente differente non è un rischio da gestire, ma un’opportunità di arricchimento intellettuale, emotivo, relazionale ed etico per l’intera organizzazione.

Cooperative Learning per la gestione dei gruppi

Un esempio pratico di come tradurre questi principi in azione quotidiana è il Cooperative Learning (CL), una metodologia che organizza le persone in piccoli gruppi eterogenei per raggiungere obiettivi comuni, richiedendo interdipendenza e responsabilità individuale.

I cinque elementi fondamentali del Cooperative Learning sono direttamente applicabili alla gestione delle risorse umane, osserva Marta Milani nei suoi scritti:

  1. Interdipendenza positiva: creare situazioni in cui il successo individuale è legato al successo del gruppo, trasformando la diversità da potenziale ostacolo a risorsa indispensabile.

  2. Interazione promozionale faccia a faccia: favorire relazioni interpersonali significative che superino l’isolamento sociale dei lavoratori stranieri o “diversi”.

  3. Insegnamento delle abilità sociali: competenze come la comunicazione efficace, la gestione dei conflitti e la capacità di “criticare le idee, non le persone” non sono innate, ma si apprendono e si rafforzano con la pratica guidata.

  4. Formazione di gruppi eterogenei: riconoscere l’eterogeneità intrinseca del team come punto di partenza, non come problema da risolvere.

  5. Valutazione individuale e di gruppo: sviluppare sistemi di performance management che valorizzino sia il contributo del singolo sia la capacità di collaborazione del team.

L’investimento nell’approccio interculturale

In un contesto economico dominato da logiche neoliberali centrate su competizione, efficienza e individualismo, può sembrare controintuitivo investire tempo e risorse nella formazione interculturale.

Eppure, i dati parlano chiaro: organizzazioni con elevate competenze interculturali registrano:

  • Riduzione del turnover tra dipendenti stranieri e appartenenti a minoranze
  • Incremento dell’innovazione grazie alla diversità cognitiva dei team
  • Miglioramento del clima aziendale e riduzione dei conflitti improduttivi
  • Maggiore attrattività per talenti globali in un mercato del lavoro sempre più competitivo
  • Regole e normativa più efficaci rispetto a diversità, equità e inclusione

La domanda non è più “se” investire nelle competenze interculturali, ma “quando” e “come”.

Il ruolo strategico delle risorse umane: la persona

Viviamo in quella che il sociologo Zygmunt Bauman ha definito “società liquida”: fluida, instabile, caratterizzata da cambiamenti rapidi e imprevedibili.

In questo contesto, la capacità di navigare la complessità culturale non è un vezzo intellettuale, ma una competenza strategica fondamentale.

I professionisti delle risorse umane sono in prima linea in questa trasformazione.

Non sono più semplici gestori di procedure e contratti, ma architetti di ecosistemi organizzativi in cui la diversità diventa motore di crescita e innovazione.

Questo richiede un cambiamento di paradigma:

  • dalla logica del “noi” e “loro” a quella del “noi inclusivo”,
  • dalla tolleranza passiva alla valorizzazione attiva,
  • dalla gestione dei rischi alla creazione di opportunità.

Il Master universitario in Intercultural Competence and Management del Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona nasce proprio con questo obiettivo: fornire a chi si occupa di risorse umane gli strumenti teorici e pratici per affrontare con competenza le sfide della comunicazione, della gestione dei conflitti e della mediazione interculturale in ambito aziendale e delle organizzazioni (profit e non).

In un mondo sempre più interconnesso, la capacità di costruire ponti tra culture diverse non è solo una qualità desiderabile: è la competenza che distingue le organizzazioni capaci di navigare la complessità da quelle destinate a soccombere in un clima insoddisfacente sul piano umano, organizzativo e relazionale.

Articolo a cura di Maurizio Corte, sulla base dei testi di Agostino Portera e Marta Milani.
*** Il testo è stato redatto con l’assistenza di Notebook LM e Claude.

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